Il Venerdì Santo è nell’immaginario comune e nella sua profonda realtà spirituale un giorno di silenzio e dolore. Come tutti sanno, è il terzo giorno del Triduo Santo della passione, morte e resurrezione di Nostro Signore e in esso si commemora la morte in Croce di Cristo.

Un testo della liturgia odierna, l’orazione introduttiva, esprime bene il suo significato, mostrando il punto di partenza e quello di arrivo dell’azione liturgica stessa. L’orazione recita così: “Ricordati, Padre, della tua misericordia; santifica e proteggi sempre questa tua famiglia, per la quale Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale”. Subito possiamo mettere in luce degli elementi essenziali per la nostra comprensione del mistero che si celebra: il sangue di Cristo e la Pasqua vicina. Il primo elemento, il sangue, è tra quelli al centro della devozione di questo giorno. Non avrebbe senso ricordare la morte di Cristo se non abbiamo ben presente che è attraverso il suo sangue che Egli ha ottenuto la redenzione, la salvezza per ognuno.

Ma da cosa ci ha salvati? Sostanzialmente, egli ci ha salvati dalla morte eterna. Se è vero che dopo la sua resurrezione noi continuiamo a morire, piuttosto che vivere in eterno, è altrettanto vero che Cristo ci ha dato la certezza che non moriamo in eterno, ma che, risorti con Lui e come Lui, vivremo per sempre nella sua gloria. Questa salvezza Egli l’ha operata con il suo sangue, morendo della morte più infamante che gli potesse toccare in sorte. Egli è morto come un peccatore, sebbene non abbia mai peccato e questo è già un dato in più che ci dice di essersi caricato dei peccati altrui.

Anche la Sacra Scrittura afferma ciò, quando profeticamente Isaia esclama: “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Isaia 53,4-5).

Isaia aveva profeticamente parlato di Cristo e nelle sue parole sono racchiusi alcuni concetti chiave del Venerdì Santo. Anzitutto egli afferma che il servo di Dio si è caricato di sofferenze altrui; abbiamo già detto, infatti, che Gesù non è morto perché macchiatosi di colpe proprie, ma per redimere l’umanità dai propri peccati. Ecco perché più avanti il profeta afferma che “si è addossato i nostri dolori”. Il servo sofferente è giudicato “castigato da Dio” perché agli occhi del mondo egli è punito come un malfattore.

Accade spesso anche nel nostro tempo che un innocente sia perseguitato pur non essendo colpevole e lo stesso è accaduto per Cristo. Tanta era la sofferenza che stava patendo, che sebbene innocente poteva essere ritenuto, secondo la malizia comune, un “castigato e percosso da Dio”. Non è difficile, al giorno d’oggi, rilevare l’insidiosità di questo pensiero comune, come se Dio castigasse e premiasse alla stessa maniera della logica umana, per cui la sua sofferenza è un castigo divino per colpe certamente commesse da lui o dai suoi parenti.

Di questo sofferente si dice, infine, che “è stato trafitto per le nostre colpe” e che “il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui”. Il concetto è quello della redenzione, proprio come l’ho già espresso sopra. A questo punto, abbiamo una certezza in più circa il dolore che anche noi sperimentiamo. Forse nessuno saprà dirci in maniera convincente il perché esso esista, ma nessuno potrà dire che Dio stesso non lo abbia sperimentato. Come per fede noi crediamo che Gesù era Figlio di Dio ed era Dio stesso (già il Concilio di Nicea nel 325 si espresse in merito e tutte le confessioni cristiane sono concordi in questo), parimenti abbiamo la certezza che Dio conosce il nostro dolore, vi ha partecipato e sulla croce in mezzo al dolore è morto realmente.

Con esso siamo inoltre certi che il dolore non è l’ultima parola; il mistero della Pasqua ci rivelerà abbondantemente questa realtà poiché non vi è morte che abbia vinto su Dio, anzi egli ha vinto la morte per donarci la vita eterna. In questo giorno di memoria della passione santa, come anche nel Mercoledì delle Ceneri, i fedeli cristiani dai 14 anni di età sono invitati all’astinenza dalla sola carne, mentre quelli dai 18 ai 60 anni al digiuno che consiste nel consumare un solo pasto, a scelta tra il pranzo o la cena.

Il senso del digiuno è fortemente penitenziale, sì che il suo senso è di partecipazione al sacrificio di Cristo in croce. Il suo significato è tanto più comprensibile se lo leghiamo al significato intimo e spirituale. Non avrebbe senso, infatti, la pratica esteriore dell’astinenza dal cibo se a essa non corrispondesse un rinnovamento interiore; non è casuale, infatti, che la tradizione della Chiesa vincola il digiuno alla preghiera e all’elemosina. Per analogia possiamo paragonare questa pia pratica a qualsiasi nostro proposito di bene.

Esso non avrà mai il significato pieno che vogliamo dargli se non è motivato da una spinta interiore della nostra volontà di compiere il bene; non riusciremo mai, ad esempio, a dimostrare il nostro affetto verso una persona cara se non gli faremo intendere che questo sentimento è vero e radicato nel nostro cuore. Così è per il digiuno: esso non è una pratica fine a se stessa ma, accompagnata dalla preghiera e dall’elemosina, è espressione della volontà personale di conversione. Un ultimo significato del digiuno è, infine, quello dell’attesa. Questo senso è mutuato dalla tradizione Orientale, dalla cui saggia riflessione apprendiamo che il digiuno è come una veglia prolungata in attesa della resurrezione.

 

In questo giorno, inoltre, non si celebra l’Eucaristia. L’azione liturgica officiata consta di tre momenti: la liturgia della Parola, in cui si legge il brano di Isaia sopra citato, si fa memoria della Passione di Gesù e si recita la preghiera universale; l’adorazione della Croce e ultimo la Comunione Eucaristica dei fedeli convenuti. Proprio perché in questa liturgia è assente la Consacrazione del pane e del vino, per noi grottagliesi ha assunto nel tempo il nome di “Messa scirrata”, poiché per il dolore della morte di Cristo il sacerdote si dimenticherebbe di consacrare. È evidente tra l’altro un segno eloquente per il suo silenzio.

Quanti vi faranno caso, si accorgeranno, infatti, che le campane di tutte le chiese tacciono e questo già dal giorno prima. Il silenzio è espressione simbolica, ancora una volta, dell’attesa della resurrezione di Cristo. Per questo motivo c’è molto silenzio durante la celebrazione e le campane in particolare non suonano più dal canto del Gloria il Giovedì Santo fino al canto del Gloria della notte di Pasqua. I frutti spirituali di questo giorno sono ben espressi dall’orazione finale della liturgia del Venerdì Santo, la quale recita: “Scenda, o Padre, la tua benedizione su questo popolo, che ha commemorato la morte del tuo Figlio nella speranza di risorgere con lui; venga il perdono e la consolazione, si accresca la fede, si rafforzi la certezza nella redenzione eterna”.

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